In un tempo che pare sospeso tra il cielo delle idee e il fango delle piazze, la Giustizia cammina fiera, con passo solenne. Porta con sé due strumenti: una bilancia, fragile promessa di equità, e una spada, affilata incarnazione del potere. Ma mentre la bilancia oscilla al ritmo incerto delle speranze umane, è la spada a imporsi nella scena dell’arte come emblema silenzioso ma eloquente di ciò che la Giustizia è diventata — e di ciò che, forse, ha perduto.
La storia dell’arte non mente: essa racconta, con immagini scolpite nel tempo, il lento mutare di un ideale. Un tempo, la Giustizia era virtù divina, figlia della Sapienza, sorella della Misericordia. Ambrogio Lorenzetti, nel suo celebre ciclo sul Buon Governo a Siena, ci mostra la Giustizia seduta tra Concordia e Sapienza, intenta a pesare le azioni degli uomini. Ma proprio lì, in un angolo affrescato con meno enfasi eppure carico di significato, compare una seconda Giustizia: più piccola, armata, col capo mozzato di un condannato ai piedi. La bilancia ha lasciato il posto alla lama. L’ideale si è fatto acciaio.

La spada entra così nella scena artistica come simbolo della giustizia terrena, non più mediatrice tra cielo e terra, ma strumento attivo di punizione. Non è più tempo di ponderare: è tempo di colpire. A partire dal XIII secolo, mentre le città si dotano di tribunali pubblici e codici penali, la Giustizia inizia a impugnare la sua lama con decisione. Non è solo colei che valuta, ma anche colei che esegue. La sua presenza inquieta: la bilancia conforta, la spada minaccia.
Nel Quattrocento fiorentino, Piero del Pollaiolo dipinge una Giustizia armata e imperiosa. Seduta su un trono marmoreo, stringe una spada con il braccio corazzato e posa l’altra mano su un globo. È la custode dell’ordine terreno, incarnazione del “ius gladii”, il diritto di vita e di morte. Niente veli, niente indulgenze. La virtù si fa potere. La bilancia, se ancora presente, è ormai un accessorio; è la spada che comanda la scena.
Ma la spada non è solo arma. È anche segno, ammonimento, metafora. Raffaello, nella Stanza della Segnatura in Vaticano, dipinge una Giustizia che solleva la spada al cielo, senza brandirla. È eretta, fiera, come a dire: “So colpire, ma scelgo quando”. E attorno a lei, angeli recano il motto: “Ius suum cuique tribuit” — a ciascuno il suo. In quella spada alzata c’è forse l’ultimo riflesso di un ideale: quello di una forza giusta, che punisce, sì, ma per ristabilire un equilibrio divino.

Eppure, proprio tra la fine del Quattrocento e l’alba del secolo successivo, qualcosa si incrina. In alcune opere, come nell’Hypnerotomachia Poliphili, la bilancia e la spada si intrecciano a formare una croce: simbolo perfetto di ordine e simmetria, ma anche crocevia di tensioni irrisolte. La bilancia non è più in equilibrio. Il potere giudiziario mostra la sua asimmetria, il suo legame ambiguo con le gerarchie sociali. La spada, da strumento della giustizia, rischia di farsi strumento del potere.
Oggi, quella spada torna a inquietarci. Non la vediamo più sulle tele, ma nei gesti, nelle sentenze, nelle ingiustizie che ancora dividono i deboli dai forti. È ancora lì, appesa sopra la testa di ogni cittadino, come una moderna spada di Damocle. Non sempre colpisce. Ma pesa.
Forse dovremmo tornare a guardare quelle immagini antiche, non solo per comprendere il passato, ma per interrogare il presente. Perché la vera giustizia, come ci insegnano gli artisti del Rinascimento, non brandisce mai la spada senza prima interrogare la bilancia.
