Giorgio Tentolini (@giorgiotentolini) è un noto artista, con riconoscimenti nazionali e internazionali, nato nel 1978 a Casalmaggiore (Cremona). I suoi lavori sono un incrocio tra pittura e scultura con l’utilizzo di diversi materiali: rete metallica, tulle, PVC, carta e fibre. Lo abbiamo incontrato per approfondire la sua arte, per farci raccontare come è diventato un artista e farci spiegare alcune delle sue celebri opere d’arte.
- Quale percorso lo ha portato a diventare un artista?
Sin da ragazzo sono sempre stato attratto dall’immagine come linguaggio di conoscenza. Dopo gli studi artistici, nei primi anni Duemila ho iniziato a lavorare come grafico, illustratore e fotografo per riviste e case di moda: un’esperienza che mi ha insegnato sul campo quanto la luce, la composizione e il tempo siano elementi fondamentali della percezione. In parallelo prendeva forma il mio percorso artistico personale, che si è sviluppato quasi in simbiosi con quello professionale: la fotografia mi portava alla scultura, la grafica alla stratificazione, l’immagine al suo stesso limite. Con il tempo mi sono accorto che ciò che mi interessava davvero non era rappresentare qualcosa, ma capire come vediamo, cosa resta di un volto o di un istante quando il tempo lo attraversa. Da qui è nato il mio linguaggio basato sulla stratificazione, che è insieme tecnica e metafora della memoria, dell’identità, della costruzione del sé. Ogni serie — dai primi lavori in tulle e rete fino alle figure contemporanee ispirate alla statuaria classica o alle immagini generate dall’intelligenza artificiale — è sempre stata un modo per interrogare il confine tra presenza e assenza, materia e luce, realtà e proiezione. Essere artista, per me, non è mai stato una scelta isolata o romantica, ma la conseguenza naturale di un’urgenza di visione: la necessità di dare forma a qualcosa che non può essere detto, ma solo mostrato, nel silenzio tra le maglie della rete.

- Quali sono i suoi artisti preferiti sia del presente che del passato? Si è in qualche modo ispirato a qualche artista specifico o ad un periodo?
Mi sono formato guardando con attenzione a quel rinascimento del ritratto e della pittura fiamminga che, nella prima età moderna, ha esplorato con rigore la presenza dell’immagine, e la tensione fra visibilità e trascendimento. In particolare, mi riferisco a Piero della Francesca, Antonello da Messina e la famiglia dei Bellini (Giovanni e Gentile) — artisti che sapevano costruire il ritratto come un punto d’intersezione tra “io” e “altro”, tra la figura e lo spazio che la circonda, tra la luce e la materia del volto. Un esempio che utilizzo spesso come riferimento è il celebre dipinto di Andrea Mantegna Tuccia (circa 1495-1500): la figura della vestale che tiene un setaccio in mano è una potente allegoria del tempo, della separazione, della memoria che filtra ciò che resta. In quel gesto minimo — il setaccio, l’acqua che passa — c’è per me un forte richiamo al mio lavoro: attraverso la rete, la stratificazione, l’ombra e la luce cerco di far filtrare l’immagine, di scomporla e ricomporla come un tempo che passa e rimane. Tra gli artisti contemporanei, sono da sempre attratto da chi affronta la materia come soglia tra visibile e invisibile. Penso a Bill Viola, Anselm Kiefer, Christian Boltanski — tutti autori che interrogano memoria, storia, presenza e assenza. Ma penso anche che una svolta decisiva per me si è verificata quando ho guardato con attenzione al lavoro di Damien Hirst — in particolare alle sue opere in cui seziona squali o mucche come metafora radicale della carne, della morte, del vedere e non-vedere — e al modo in cui Claudio Parmiggiani utilizza la polvere, la traccia, il residuo come memoria visiva o come presenza sussurrata, così come al linguaggio corporeo e materico di Antony Gormley, che fa della figura umana materia e spazio insieme. Così, più che parlare di “ispirazione” nel senso classico, direi che mi colloco in una linea di continuità: quella degli artisti che non soltanto rappresentano, ma interrogano la forma, la luce, lo spazio, la rete e il filtro — non per imitare, ma per tradurre in altri linguaggi ciò che sento come urgente visione.
- Ci può definire il suo concetto di stratificazione?
La stratificazione per me non è soltanto una tecnica, ma una visione del mondo. È il modo in cui la realtà si manifesta: mai come un’immagine unica, ma come la somma di ciò che ricordiamo, desideriamo, dimentichiamo. Ogni volto, ogni gesto, ogni pensiero è il risultato di una sovrapposizione di tempi, esperienze e sguardi. Nel mio lavoro ho utilizzato materiali diversi — rete metallica, tulle, PVC, carta, fibre — e altri ne sto sperimentando, ma sempre con un’idea costante: costruire un’immagine che emerge dal tempo, che si rivela per accumulo e trasparenza. Ogni materiale diventa così metafora e veicolo di un messaggio, non solo una scelta estetica. È come se ogni strato contenesse un frammento di senso, e solo nella loro somma l’immagine trovasse una sua verità. Anche l’essere umano, in fondo, è una stratificazione vivente. Siamo fatti di esperienze, emozioni e memorie che si sovrappongono nel tempo, ma anche di ciò che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduti: gesti, abitudini, sguardi, fragilità. Siamo la continuità di infinite identità anteriori, la sedimentazione di un’umanità che si trasmette attraverso la memoria. Per questo la stratificazione è, per me, anche una forma di memoria collettiva: un modo per parlare dell’identità come processo, non come immagine fissa. Ogni mia opera tenta di restituire questa complessità, mostrando che la verità non sta nella superficie, ma nella profondità degli strati che ci compongono — nella luce che filtra tra uno e l’altro, dove l’immagine si rivela e scompare allo stesso tempo.
- Come mai “le reti”? Da dove è partita questa idea di creare queste opere d’arte uniche?
La rete accompagna il mio lavoro sin dagli inizi. La prima opera in rete metallica risale al 2006, e fin da subito ho percepito in quel materiale una forza simbolica capace di veicolare un messaggio: parlare di immagine, di percezione, di identità attraverso un linguaggio che fosse al tempo stesso concreto e immateriale. La rete, come il tulle o altri materiali che utilizzo, possiede una duplice natura: è trasparente ma resistente, lascia passare la luce ma trattiene la forma, come una soglia tra presenza e assenza. Ho scelto di usarla perché permette di costruire un’immagine che non si impone, ma si rivela solo attraverso la luce, restando in bilico tra visibile e invisibile. Col tempo, questa scelta è diventata anche una metafora del nostro tempo. La rete rappresenta le connessioni che ci uniscono — digitali, neurali, relazionali — ma anche le trappole che ci imprigionano. È insieme filtro e barriera, luogo di passaggio e di riflessione. In questo senso, ogni mia opera è un modo per interrogare il modo in cui oggi guardiamo e siamo guardati, immersi in un sistema di immagini e connessioni che ridefinisce continuamente la nostra identità. Quando la luce attraversa la rete, l’immagine prende vita e si moltiplica nelle ombre e nei riflessi: ciò che vediamo non è mai solo la figura, ma anche la sua proiezione nello spazio e nel tempo. È in questo dialogo continuo tra materia e luce che il mio lavoro trova senso: la rete diventa così non un semplice materiale, ma una lingua — la mia lingua — per parlare del presente.

- Ha una tecnica specifica per realizzare le sue opere? Come mai molte dei suoi ritratti hanno gli occhi chiusi?
Ogni mia opera nasce da un lungo processo di costruzione e decostruzione dell’immagine. Parto quasi sempre da una fotografia o da un’elaborazione digitale, che viene poi tradotta in livelli successivi di disegno, taglio e stratificazione. Ogni strato è un frammento di luce e ombra, inciso o tagliato a mano, che solo sovrapponendosi agli altri genera la figura finale. L’immagine non è mai pienamente disegnata: si forma nello spazio, nella distanza, nel respiro della luce che la attraversa. La tecnica varia a seconda del materiale — rete metallica, tulle, carta, PVC o fibre sintetiche — ma l’intento è sempre lo stesso: rendere visibile il tempo e la fragilità dell’apparizione. È un lavoro di pazienza e precisione, in cui la mano e la mente dialogano con la materia, cercando un equilibrio tra controllo e perdita. Per quanto riguarda gli occhi chiusi, sono un elemento che ritorna spesso nei miei ritratti, perché rappresentano un momento di sospensione: uno stato interiore in cui la visione non è più verso l’esterno, ma rivolta all’interno. In un’epoca in cui tutto è esposizione e visibilità, gli occhi chiusi diventano per me un atto di resistenza, un gesto di raccoglimento. Questi volti sembrano dormire o meditare, ma in realtà vedono in un altro modo: evocano uno sguardo che non passa attraverso la vista, ma attraverso la memoria e l’emozione. È come se, chiudendo gli occhi, il soggetto tornasse a essere immagine pura — una presenza sospesa tra il reale e l’immaginato, tra il corpo e la luce che lo attraversa.

- Quali sono state le mostre a cui ha partecipato che reputa più importanti e significative per la sua carriera d’artista?
Ogni mostra è per me una tappa di un percorso in continua evoluzione, ma alcune hanno segnato momenti di svolta, perché hanno ridefinito la mia consapevolezza del linguaggio e del suo rapporto con il tempo presente. Tra queste, la partecipazione alla 60ª Biennale di Venezia, all’interno del Padiglione della Repubblica del Camerun presso Palazzo Donà dalle Rose, ha rappresentato un punto di grande maturazione. Il progetto, intitolato The Voice of the Planet, nasceva come riflessione sul tema “Stranieri Ovunque” e intrecciava la mia ricerca sulla rete e sulla stratificazione con una riflessione sull’identità umana come memoria collettiva. Quattro light box raffiguravano volti generati dall’intelligenza artificiale, in dialogo con maschere africane: un ponte ideale tra le origini dell’umanità e le nuove tecnologie. La rete metallica, tagliata a mano e sovrapposta in dieci livelli, diventava metafora del tempo, del radicamento e della connessione tra culture, evocando l’idea che ogni essere umano sia il risultato di infinite stratificazioni di memoria e di storia. Un’altra tappa fondamentale è stata la mostra antologica a Palazzo Tarasconi di Parma, che ha raccolto oltre vent’anni di ricerca, offrendo una visione complessiva del mio percorso attraverso luce, materia e identità. Importanti anche le mostre presso il Palazzo della Regione Emilia-Romagna a Bologna e il Palazzo Pirelli di Milano, dove ho iniziato ad approfondire il rapporto tra arte e intelligenza artificiale, introducendo il concetto di stratificazione digitale e di percezione algoritmica dell’immagine. Tra i progetti più intensi ricordo “Per Grazia Ricevuta” al Museo del Tesoro di San Gennaro a Napoli, con l’opera dedicata a Igea, simbolo di cura e guarigione, e le più recenti rassegne “Ligyes – Le Sirene” ad Alassio e “Cantami o Diva” a Roma, in cui il mito incontra la contemporaneità e la luce diventa filtro tra umano e artificiale. In fondo, però, ogni mostra è una nuova occasione di rivelazione: ogni incontro tra un’opera e uno sguardo rinnova il senso stesso del mio lavoro — un dialogo continuo tra memoria e presente, tra visione e verità. Ma credo che le mostre più importanti siano sempre quelle che devono ancora avvenire: ogni incontro tra un’opera e uno sguardo rinnova quel fragile equilibrio tra realtà e proiezione, tra ciò che siamo e ciò che lasciamo intravedere.
- Ci può descrivere una o più opere, che vuole mostrare e spiegare ai nostri lettori per far comprendere meglio la sua arte?
Più che a un’unica opera, penso al mio lavoro come a un percorso di attraversamento: un lungo dialogo con l’immagine, iniziato nei primi anni Duemila, in cui cerco di comprendere come essa agisca sulla nostra percezione e sulla costruzione dell’identità. Fin dall’inizio ho avvertito l’esigenza di restituire all’immagine fotografica una profondità fisica e mentale, liberandola dalla bidimensionalità e dal tempo istantaneo della visione contemporanea. Ho cercato di ridarle spessore, come se potesse respirare, sedimentarsi, ricordare. Il mio lavoro nasce da questa tensione: dare forma visibile alla memoria, che è sempre stratificazione, e al tempo stesso mostrare la fragilità dell’identità, che si definisce solo per frammenti, per sovrapposizioni di esperienze e sguardi.
La rete metallica e la stratificazione sono diventate così il linguaggio attraverso cui tradurre tutto questo. La rete è al tempo stesso gabbia, filtro e trappola: trattiene l’immagine ma la lascia fuggire, ne definisce i contorni mentre la dissolve. È la metafora di un mondo dove tutto è connessione e interruzione, visibilità e cancellazione. Attraverso la rete, la luce non si posa ma attraversa: rende l’immagine mutevole, instabile, come un’eco che vive solo nello sguardo di chi osserva. In questo senso, le mie opere non rappresentano qualcosa, ma accadono, si manifestano per un attimo e poi scompaiono, come la memoria stessa. Nel tempo, questo linguaggio si è evoluto in diversi cicli di lavoro, che raccontano l’evoluzione del concetto di canone estetico e la sua trasformazione nella cultura visiva contemporanea.

Con “Pagan Poetry”, ho guardato alla statuaria classica, al canone originario della bellezza: corpi perfetti, immobili, sospesi in un ideale che non appartiene più al presente. La rete, in questo contesto, diventa una gabbia dorata, un confine tra l’umano e l’archetipo, tra desiderio e imposizione.
Successivamente, con la serie “Jeune Fille”, ho rivolto lo sguardo al contemporaneo: modelle e icone mediatiche, volti idealizzati e consumati dall’immaginario collettivo. In questi lavori, la rete diventa il simbolo di un canone in continua metamorfosi, generato dallo sguardo sociale, dalla moda, dal marketing. Le figure, filtrate e sospese, sono come corpi in bilico tra l’essere e il rappresentarsi, tra identità e proiezione.
Con “Jamais Vu”, il soggetto si svuota completamente: non più corpo, ma simulacro, manichino, presenza spogliata di sé. L’assenza diventa protagonista. Sono figure senza storia, nate dall’immaginario dei social e dalla moltiplicazione di immagini foto ritoccate: volti perfetti, ma senza identità, privi di tempo e di verità.
Negli ultimi progetti, come “Derealized” e “In Too Deep”, il discorso si sposta ancora: l’immagine non è più solo filtrata, ma generata artificialmente. L’intelligenza artificiale produce volti che non esistono, mescolando migliaia di frammenti visivi in una nuova forma di memoria digitale. In queste opere, la rete diventa anche rete neurale, rappresentazione di un pensiero diffuso, collettivo, che non appartiene più a un singolo autore ma a un sistema. Il mio compito, in questo scenario, è quello di restituire all’immagine una dimensione umana, una possibilità di emozione e di imperfezione.
Tutto il mio percorso, in fondo, ruota intorno a una domanda semplice ma ineludibile: che cosa rimane dell’immagine quando tutto è visibile? Ogni mio lavoro tenta di rispondere a questo interrogativo trasformando la materia in memoria, la luce in pensiero, il corpo in traccia. L’immagine diventa così un atto di resistenza alla perdita di senso, un modo per rallentare lo sguardo e ricordare che tra la luce e la sua ombra, tra il visibile e il nascosto, abita ancora la nostra verità più profonda.



