Pierpaolo Perretta, in arte Mr. Savethewall, ama definirsi un writer gentiluomo. Dopo una carriera da manager e vice segretario di Confartigianato, ha scelto di lasciare la strada del business per seguire la chiamata dell’arte. Oggi è tra i protagonisti più riconoscibili della post street art italiana, capace di unire ironia, riflessione sociale e una visione profonda dell’uomo contemporaneo. Le sue opere — come l’iconico Kiss Me, il ranocchio antropomorfo, e Love Me or Like Me — raccontano con leggerezza e intelligenza la fragilità dei nostri tempi, in cui l’apparire spesso prevale sull’essere. Lo abbiamo incontrato per parlare di arte, autenticità e futuro.
Come è nato il suo percorso artistico e come è cambiata la sua vita da artista?
Per rispondere, mi piace citare Picasso: «Ogni bambino è un artista, il problema è come rimanere artisti una volta cresciuti». Il mio percorso nasce da questa consapevolezza. Ho mantenuto viva la capacità di meravigliarmi e di incuriosirmi, e forse è per questo che sono rimasto un artista. La mia vita, in fondo, non è cambiata: è stata un continuum naturale. Ciò che si è trasformato è l’esperienza professionale — dalla rigidità degli ambienti istituzionali che frequentavo come funzionario di un’associazione di categoria, sono passato a una libertà creativa più coerente con la mia natura autentica.
“Kiss Me” è diventata un’opera iconica del suo percorso. Come è nato questo soggetto e cosa rappresenta per lei oggi, a distanza di tempo dalla sua creazione?
“Kiss Me” è emblematica della mia ricerca artistica e, in fondo, del mio modo di vivere. Il principe azzurro che desidera essere baciato e trasformato in rana rovescia la logica della fiaba tradizionale e ci invita a sorridere, ma anche a riflettere. Nella mia visione, la principessa è una sorta di strega moderna, che incarna l’incantesimo dello stereotipo: la promessa di una vita perfetta e scintillante, ma in realtà artificiale e irraggiungibile. A quarant’anni ho capito di essere “nato rana” e ho scelto di tornare a esserlo: ho lasciato giacca e cravatta per riscoprire la nudità come condizione di verità e autenticità.
La fiaba de “La principessa e il ranocchio” è stata da lei reinterpretata in chiave critica. Pensa che il suo “ranocchio elegante” possa essere letto come una metafora dell’uomo contemporaneo?
Assolutamente sì. È l’immagine di un uomo che, pur indossando abiti eleganti e maschere sociali, resta fedele alla propria natura originaria. Il “ranocchio elegante” non è un paradosso, ma un monito: ricordarci che l’essenza vale sempre più dell’apparenza.
Nelle sue opere emerge spesso un’ironia pungente che mette in discussione la società dei consumi e delle apparenze. Quanto è importante per lei la dimensione critica e politica dell’arte?
Per me è imprescindibile. Anche quando prevale l’aspetto ludico o estetico, il messaggio profondo è sempre presente e, prima o poi, arriva. A volte persino dopo aver osservato un’opera per giorni o settimane. Capita anche a me di scoprire significati nuovi, come se emergessero dall’inconscio: è questa la vera magia dell’arte.

Lei cita spesso l’influenza di artisti come Banksy e Damien Hirst. In che modo questi riferimenti hanno dialogato con la sua ricerca e come si è differenziato da loro nel costruire una voce personale?
Ho realizzato una serie di 38 ritratti di artisti che considero fondamentali per la mia formazione, oggi conservati al MUSEC di Lugano. Sono per me una mappa emotiva e intellettuale, un omaggio alle loro influenze. Non ce n’è uno solo: ciascuno ha contribuito a definire la mia voce e il mio sguardo. Banksy mi ha catturato con la sua potenza comunicativa, ma lo studio della storia dell’arte continua ad aprirmi orizzonti infiniti.
Guardando al futuro della Street Art, sempre più istituzionalizzata e accolta nei musei, crede che questo movimento possa mantenere intatta la sua natura ribelle e anticonvenzionale?
Mi sono preso la libertà — e la responsabilità — di dichiarare conclusa la stagione della street art, coniando il termine “post street art” e firmando un manifesto.
Quando vengono meno le regole fondanti del movimento — dall’illegalità all’abbandono della strada, fino alla collaborazione con istituzioni e musei — la street art perde la sua essenza originaria. Ha compiuto il suo ciclo, e con esso la sua funzione di linguaggio libero e dirompente.
Come pensa sarà e come dovrebbe evolvere il linguaggio artistico e culturale nei prossimi anni?
Non posso prevederlo in generale, ma vedo alcune direzioni nella mia ricerca. Immagino un’arte meno autoreferenziale, capace di dialogare con la vita reale, i linguaggi digitali e la fluidità delle identità.
Credo in un’arte che non si limiti a decorare, ma che scuota, interroghi, accompagni le persone nella quotidianità. Un’arte che non resti confinata ai muri o ai musei, ma che entri nel flusso della vita, diventando specchio e strumento di consapevolezza.
La sua esperienza al Salone Nautico di Genova:
Riassumerei quell’esperienza con una frase che ho scritto proprio per l’occasione:
«L’arte urbana ha superato muri e confini che un tempo sembravano invalicabili: gallerie, musei, case d’asta. Oggi approda anche nella Vip Lounge del Salone Nautico di Genova.
Non è un’invasione, ma il frutto di un percorso coerente e costante, come una goccia che scava la roccia.
L’arte urbana è come l’acqua: fluida ma potente, capace di un linguaggio universale che parla a tutti, ovunque, senza snaturarsi. Chi vive il mare sa che l’acqua non si combatte: la si rispetta e la si gode, proprio come si fa con l’arte che nasce dal profondo e si rivela in superficie.»
